giovedì, maggio 07, 2009

La Romania che non conoscevamo

Se innumerevoli sono le testimonianze letterarie disponibili su come si viveva nel totalitarismo sovietico ( e più che alla penna di Solgenitsin penso allo sguardo dissacrante di Viktor Pelevin, di cui è doveroso leggere lo splendido "Omon Ra"), ben più difficile è avere testimonianze su come si viveva negli stati satelliti di quell'impero, ed in particolare in quello dominato dal delirante Ceasescu (nel quale, ripensandoci oggi, dobbiamo riconoscere innumerevoli e inquietanti tratti preberlusconiani: dal culto della personalità alla volontà di controllo totale del pensiero e della vita dei governati, dal mito delle "new town" - con conseguente deportazione forzata dalle campagne - all'insofferenza per qualsiasi tipo di critica).
Vi consiglio la lettura, a questo proposito, di
"Il Re Bianco", di Gyorgy Dragoman: è il suo primo romanzo pubblicato in Italia (da Einaudi). Nato nel 1973 in Romania, esponente della minoranza ungherese perseguitata dal regime, Dragoman vive in Ungheria dal 1988.

La vicenda si svolge in una città imprecisata della Romania, e la presenza di un episodio in cui si parla dell'incidente di Chernobyl la colloca temporalmente nella seconda metà degli anni Ottanta.
Dzsata ha undici anni, quando gli agenti della Securitate, sotto le vesti di compagni di lavoro, portano via da casa suo padre.
Il ritorno del padre, previsto entro una settimana, subisce ritardi sempre più ingiustificabili, fino a quando diventa chiaro che non si trattava di "lavoro", ma di "lavori forzati": per aver firmato un manifesto contro il regime, è stato mandato a scavare il Canale tra il Danubio ed il Mar Nero, soprannominato il "Canale dei Morti" a causa del sacrificio di migliaia di prigionieri politici morti a causa delle massacranti condizioni di lavoro.
La madre di Dzsata è ebrea, ed è odiata dal suocero che - a causa della "sovversione" del figlio, che considerano istigata da lei - perde repentinamente la condizione di potente elemento della nomenklatura cittadina del Partito: la vita di tutti si fa difficile, ma Dzsata tenta di proteggere la madre, di non darle altri pensieri oltre a quelli -devastanti - legati alla scomparsa del marito.
Anche lo stesso Dzsata, in quanto figlio di un elemento politicamente inaffidabile, vive la sua esclusione ufficiale dalle strutture giovanili previste dal Partito, salvo esservi ammesso clandestinamente quando le sue qualità sportive diventano utili.
Dzsata vive la sua vita di ragazzino in una società dominata dalla crudeltà e dalla violenza, figlie dell'oppressione e di una società che ha perso il proprio senso morale. I suoi amici ed i suoi coetanei usano il coltello con disinvoltura: picchiano duro, rubano e terrorizzano.Eppure Dzsata conserva la sua innocenza di bambino: sogna, gioca, spera, si indigna, resiste. Gode di quel che riesce a strappare ad un mondo cupo, con il cuore limpido ed uno sguardo solare che attraversa il fango ed il degrado senza contaminarsi, nonostante i ruoli terrificanti rappresentati dagli adulti: i professori che mentono e spaccano le ossa, gli allenatori sadici, il nonno ormai prossimo alla follia causata dall'esclusione sociale.
Scopre la bellezza e l'umanità negli esclusi (l'operaio col volto devastato dal vaiolo), la riconosce, se ne nutre per sfuggire al disastro.
Memorabile il lungo capitolo finale dedicato al funerale del nonno, che il Partito celebra nel segno della menzogna: denso di colpi di scena, di emozioni, di momenti comici e grotteschi.

Libro utile per comprendere cos'era uno stato totalitario in cui le persone avevano abdicato al pensiero ed all'umanità: per capire, anche, cosa stiamo rischiando di diventare. E, al contempo, per mantenere la speranza in chi è puro.

1 commento:

Licia Titania ha detto...

Mi sembra molto interessante; lo leggerò, si tratta di un paese e di una storia che mi affascinano. Ciao e complimenti per il blog - e per il fatto di non essere su Facebook lol!