venerdì, marzo 02, 2007

Irene e le rose (un racconto)

Nell’estate del 2022 la Grande Crisi Idrica aveva raggiunto il culmine, ed il Governo non potè fare altro che imporre misure severissime – dal razionamento alla proibizione di tutti gli usi diversi dall’agricoltura e dal consumo umano.

Era stata razionata anche la distribuzione dell’energia elettrica, erogata solo per poche ore durante la notte, poiché la grandi centrali elettriche della pianura non disponevano più dell’acqua dei fiumi per il raffreddamento.

Il panorama della Pianura Padana era ormai una immensa desolazione arida, polverosa e ocra. Viste dall’alto, solo le coltivazioni e gli allevamenti splendevano di un verde intenso, ma si trattava ormai di piccole macchie cromatiche, in un deserto di prati ingialliti e fiumi ridotti a esili fili argentei.

Anche il Po era praticamente scomparso, anche se sulle sue rive erano sorte decine di tendopoli erette nella speranza di rubare, alle poche pozze putride, l’energia necessaria per qualche coltivazione che consentisse di sfuggire alla fame.

Ai bordi di queste macchie verdi risaltavano gli scintillii delle recinzioni di filo spinato e delle garitte da cui l’esercito sorvegliava ed impediva alle popolazioni assetate di avvicinarsi agli impianti di irrigazione.

Guardando l’orizzonte, offuscato dalle polveri sottili, si vedevano ergersi le montagne senza neve.

Le ultime precipitazioni nevose si erano verificate oltre dieci anni prima, poi tutto era stato abbandonato: i paesi, le località turistiche, gli impianti di risalita restavano immobili e deserti a testimonianza di un tempo che non sarebbe più tornato.

La gente era fuggita dapprima in città, dove molti vivevano sotto i ponti cercando umidità e riparo dal calore asfissiante. Ma quando anche in città i controlli del Governo sull’uso dell’acqua si fecero strettissimi, ed i primi sciacalli -che scavavano danneggiando le tubature dell’acquedotto per rubare il prezioso liquido e rivenderlo al mercato nero- furono uccisi dalle Forze dell’Ordine, molte famiglie decisero che l’unica speranza di sopravvivenza fossero i boschi delle colline intorno alla metropoli.

Si attendarono in molti, allora, sotto i faggi ed i castagni, ritornando ad una vita primordiale, vivendo di frutti di bosco e di baratti , ricevendo acqua e viveri dalle popolazioni locali che ancora disponevano di pozzi non esauriti. In cambio davano quel poco di prezioso che avevano salvato dalla fuga – gioielli, denaro – o si offrivano, finito questo e nella maggior parte dei casi, come forza lavoro disperata e sfruttata.

Irene aveva conservato in collina la piccola casa appartenuta ai suoi nonni, e quando la situazione si era fatta drammatica aveva abbandonato la città per trasferirsi lì. Il frutteto, il vecchio roseto e le ortensie, che sua madre coltivava negli anni in cui non c’era ancora lo stato di emergenza, erano ormai morti e mummificati da tempo: da oltre cinque anni era assolutamente proibito usare l’acqua per scopi di giardinaggio. I vivai erano stati tutti chiusi, ad eccezione di pochi considerati di “interesse nazionale”, in cui si tentava di salvare dalla scomparsa – con uno specifico progetto governativo – le specie floreali e le piante originarie del paese. Qui, la coltivazione era ovviamente sorvegliata dalla polizia, come capitava per qualsiasi attività in cui l’acqua era disponibile in quantità normali – ed avrebbe quindi potuto attirare l’interesse delle popolazioni o della criminalità.

La collina aveva quindi perso il suo aspetto vivace di molti decenni prima, ed erano scomparsi i vasi di gerani alle finestre, e dai giardini gli arbusti, le rose e le ortensie, gli orti, ed anche gli alberi da frutta non fiorivano più e seccavano in seguito alla lunga siccità. Anche se qualcosa fosse sopravvissuto, le leggi speciali della Grande Crisi Idrica impedivano severamente ogni forma di coltivazione autonoma ed individuale. Qualcuno lo faceva lo stesso, in clandestinità, nonostante le severe pene previste, per produrre qualche frutto stentato o qualche ortaggio rachitico – che aveva comunque un valore altissimo sul mercato nero.

Irene si era appena laureata in scienze della comunicazione. Non aveva un fidanzato, ma molti amici con cui aveva condiviso una lunga battaglia, da quando frequentava il liceo, per sensibilizzare il mondo sulla necessità di cambiare stili di vita.

Dal 2010 gli effetti dei cambiamenti climatici si erano fatti sempre più evidenti ed irreversibili, e la serie di inverni senza freddo e senza precipitazioni era continuata facendo capire che non si sarebbe trattato di episodi. I governi delle maggiori potenze mondiali (Stati Uniti, Unione Europea, Russia, Cina, India) si erano riuniti per giungere ad un accordo che stabilisse un battuta di arresto nelle attività che avevano influenza sul clima, ma senza successo. Le potenze occidentali non intendevano ridiscutere il tenore di vita delle proprie popolazioni, le potenze emergenti non intendevano fermare i propri piani di sviluppo.

La situazione peggiorò quando, nel gennaio 2015, gli Stati Uniti d’America invasero la Russia per assicurarsi il controllo delle sue ancora notevoli risorse idriche, anticipando di poco un analogo piano di invasione congiunto predisposto da Cina e India.

L’Unione Europea non si schierò con nessuno dei contendenti, ma il suo territorio fu invaso da centinaia di migliaia di profughi russi.

La situazione delle risorse idriche divenne così critica che ogni governo europeo dovette varare delle leggi speciali. La scarsità di acqua dolce impose una sorta di economia di guerra, che ebbe riflessi immediati sull’attività industriale e sulla economia.

Si interruppe l’erogazione dell’acqua via rubinetto, ed ogni famiglia aveva diritto ad una quantità giornaliera di acqua – erogata con le autobotti nelle diverse località – sulla base del numero dei componenti e della loro età.

Le lunghe code nelle piazze, con le taniche in mano, divennero presto familiari, ed in molti casi la principale attività quotidiana di molti componenti delle famiglie.

La quantità di acqua disponibile era così ridotta che presto divenne impossibile tenere pulite le case, lavare bene i piatti e farsi il bagno: l’acqua veniva usata esclusivamente per calmare la sete.

L’acqua minerale, nei negozi, era diventata rarissima ed a prezzi proibitivi: un genere di lusso che veniva comprato dai pochi privilegiati quasi di nascosto, ed a rischio di rapina.

Le piscine all’aperto, in stato di abbandono, si erano trasformate in polverosi parchi giochi per i ragazzi.

Gli amici di Irene si erano dispersi tutti, nel corso degli anni. Molti di loro si erano trasferiti nel Nord Europa, dove il clima era diventato quasi mediterraneo. La Norvegia, ad esempio, aveva quasi raddoppiato la sua popolazione nel giro di pochi anni, anche grazie al fatto che la neve ed il gelo – in inverno – erano sempre più limitati a poche settimane di vero inverno.

Irene, nella sua casa in collina, aveva un segreto.

Nel piccolo giardino ormai in abbandono, tra il capanno degli attrezzi ed il muro che divideva la casa dal terreno del vicino, in uno spazio di un metro quadro illuminato di rado dal sole, era sopravvissuto – seminascosto, clandestino, sovversivo - un cespuglio di rose Alba.

Miracolosamente e misteriosamente sfuggito alla morte per sete, il cespuglio non era più cresciuto in altezza da anni, ma conservava la capacità di emettere ancora due o tre rose l’anno – bianche, a fiore semplice, dal profumo forte ed intenso – che spuntavano come gioielli tra il rado fogliame, spesso decimato dal mal bianco.

Irene amava quelle rose, le amava pazzamente: rappresentavano per lei la vita, la speranza, il ricordo di tutto quello che di bello, profumato e dolce c’era nel mondo – il suo mondo – prima della Crisi, della polvere, della scomparsa della vita e dei colori.

Per qualche tempo dopo l’inizio delle leggi speciali, Irene aveva con ogni cautela (se l’avessero vista, sarebbe stata arrestata ) utilizzato l’acqua di un vecchio, piccolo pozzo presente nel giardino.

Una volta ogni due o tre settimane, in estate, tirava su un secchio di acqua, ormai verde e salmastra, per diffonderlo amorevolmente attorno al colletto del vecchio cespuglio, attorno al quale aveva scavato una piccola fossetta circolare in cui concentrare le poche forme di energia – acqua salmastra, appunto, residui di foglie secche e polverose, qualche manciata di erba strappata per strada… - che ancora poteva fornire alla pianta.

Irene aveva paura: che qualcuno la scoprisse.

Che le Forze dell’Ordine sentissero quel profumo, che qualcuno gettasse passando uno sguardo di là dal muro e la tradisse. Che qualcuno la vedesse al pozzo, o peggio ancora nell’atto di versare l’acqua alla base del cespuglio.

Poi, il vecchio pozzo si asciugò irrimediabilmente.

Per qualche tempo, Irene condivise la propria razione d’acqua con le rose. Ma la sete era spaventosa, e spesso dalla sua tanica, appena dopo averla ritirata, Irene donava parte della sua razione a famiglie del paese con figli piccoli, ammalati e piangenti.

Per lei ne restava pochissima, ed anche metterne da parte a sufficienza per le rose, ed innaffiarle ogni due settimane, divenne presto impossibile.

Così, Irene fu costretta a fare quel che non avrebbe mai voluto fare.

In paese, tra la gente in coda, tutti sapevano che il vecchio Robelli vendeva acqua al mercato nero.

Disponeva di un pozzo di acqua dolce che attingeva da una falda non ancora estinta, e poi aveva certi legami con qualche potente che gli consentivano – diceva la gente – di avere persino l’acqua corrente in casa per qualche ora al giorno.

Robelli, un settantenne dal viso prosciugato dall’avidità che viveva in una grande casa poderale ai margini del paese, accettava in pagamento qualsiasi cosa: denaro, preziosi, gioielli, ma anche capi di vestiario, lenzuola, asciugamani.

Non disdegnava il baratto con qualche giornata di lavoro forzato – il taglio della legna, principalmente. Ma si sapeva, si sapeva che lo si poteva pagare anche con il proprio corpo.

Molte donne del paese lo avevano già fatto, per disperazione, e soprattutto lo facevano le cittadine sfollate in collina, sperando che con il ritorno alla normalità ed alle case, quando la Crisi fosse finita, tutto sarebbe stato dimenticato come un brutto incubo.

In una sera di quella lunga estate, dopo aver atteso il tramonto e osservato con apprensione il cespuglio sempre più sofferente, Irene partì, nel buio, e si recò a casa di Robelli.

Ignorò la persone che, fuori dalla casa, trattavano sommessamente con i dipendenti di Robelli – aveva dovuto assumere qualcuno per gestire i suoi traffici -, ignorò le loro occhiate sarcastiche e chiese di vedere il vecchio.

Due ore dopo, era di ritorno a casa con cinque litri d’acqua in tre bottiglie di plastica che nascose sotto la camicia. Aveva gli occhi colmi di lacrime ed il cuore in rivolta.

Lo scambio con Robelli era così insopportabile, per Irene, che tentò di evitarlo il più possibile. Ma vedere il cespuglio morire lentamente era una vista insopportabile, ed avrebbe fatto qualunque cosa – qualunque cosa – per evitarlo.

Le foglie cadevano inesorabilmente, una ad una, attaccate dalla malattia, ed alla fine dell’estate solo un’ultima, piccola rosa bianca stava per fiorire.

Irene la vide, nel giro di pochi giorni, sbocciare, rilasciare il suo delizioso profumo e poi, lentamente, ripiegare, abbandonarsi, sfiorire.

Quando l’ultimo petalo cadde a terra, Irene li raccolse delicatamente tra le mani: tuffò il suo viso in quel soffice profumo, lo inspirò a fondo ad occhi chiusi.

Capì d’un tratto, e irrimediabilmente, che il cespuglio aveva perso vita, speranza: che sarebbe stato, da quel momento, null’altro che un pezzo di legno contorto e morto.

Che tutto era finito.

Lasciò cadere i petali a terra, senza preoccuparsi – come aveva sempre fatto con estrema attenzione – di sotterrarli, per evitare che un refolo di vento potesse tradire l’esistenza delle rose ad occhi estranei.

Afferrò forte con le mani i rami nudi, sentì le spine morderle la carne, e il cuore sanguinare, e le lacrime roventi scivolare lungo la guance arrossate.

Stette lì, a lungo, immobile, ad aspettare che l’aria diventasse meno rovente, e il cielo rosso, ed infine stellato.

Poi si alzò, entrò in casa. Si curò le ferite. Prese dal cassetto della credenza un lungo coltello affilato, che nascose con cura tra le pieghe interne della gonna.

E infine uscì, dirigendosi – per l’ultima volta – verso l’abbraccio disgustoso di Robelli.

(fine)

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