mercoledì, maggio 31, 2006

Il generale

E' un vecchio pezzo che scrissi all'inizio della guerra in Irak. Ma la strage di Haditha me l'ha riportato alla mente.

Guardi fuori, generale, oltre il vetro rigato dalla pioggia, ed il tuo sguardo opaco segue senza fretta le luci della berlina che si allontanano sul vialetto di ghiaia.
E’ un’altra notte, quella che è caduta, in cui rimarrai solo con i tuoi ricordi.
Con un dito rugoso tracci una linea sul vetro, mentre alle tue spalle il bel salotto resta silenzioso e vuoto, come il resto della casa di campagna in cui sei venuto a concludere la tua esistenza.
Socchiudi le palpebre, reprimi un fremito del corpo vecchio e stanco, ma non riesci a impedire che, nel tuo cervello, riparta ancora quel film: sempre il solito, sempre uguale.
In quel film, nel prologo della storia, indossi la tua divisa migliore, stirata di fresco dalle giovani ausiliarie delle truppe logistiche.
Sei ancora giovane, e sei uno dei più validi generali dell’esercito alleato. Il Comandante ha fiducia assoluta nelle tue capacità, ed è per questo che ti ha affidato la guida di una delle operazioni più difficili del conflitto.
La guerra, quando era iniziata, sembrava davvero un passeggiata, una marcia trionfale, e nelle cene tra ufficiali bevevate champagne in anticipo, per anticipare la gloria che vi avrebbe avvolto all’ingresso nella capitale liberata.
Ma nel film, dopo un mese dall’inizio della guerra, vi eravate infine impantanati in un conflitto senza via d’uscita: bloccati a venti chilometri dalla capitale, con la via del ritorno bloccata dalle città riconquistate dal nemico, accampati nel deserto nei pressi di un piccola città duramente difesa dalle forze avversarie, che sembravano ritemprate dall’allontanarsi di una sconfitta annunciata, e non mollavano mai, mai, mai.
Dietro di te, nel deserto nel quale avevate percorso centinaia di chilometri in tempi record, arrugginiscono ormai a decine i camion abbandonati dopo gli assalti nemici, e si disfano al sole – cinquanta gradi, cazzo… - i corpi straziati degli ultimi uccisi (i loro, non i vostri, prontamente recuperati dagli elicotteri e sigillati nei body bag per essere gloriosamente restituiti alla disperazione dei familiari ed alla venerazione della Patria).
Il Comandante sa che la guerra è a un punto cruciale. Il favore e gli applausi sono svaniti da tempo nel nulla, il Presidente si è convinto che questa avventura debba chiudersi in fretta, in tempo utile per far dimenticare i morti prima delle prossime elezioni. Le truppe che tornano a casa sono accolte dall’indifferenza e, sempre più spesso, dalla più aperta ostilità.
Resta un’ultima possibilità, per ridurre le proporzioni della sconfitta: arrivare alla capitale in qualche modo, prenderla, e tenerla per il tempo necessario a giustificare le motivazioni originarie del conflitto, tentare un’ultimo improbabile colpo al regime che ha tenuto oltre ogni aspettativa, e far dimenticare, almeno per un poco e attraverso una vittoria effimera, le migliaia di morti inutili, le città distrutte, le strategie del terrore, le reciproche crudeltà.
Il Presidente non è convinto, non vuole altri bagni di sangue in questo momento per non compromettere ulteriormente la propria immagine internazionale, ma il Comandante insiste, chiede che gli venga concessa l’ultima opportunità per una fine decorosa del conflitto.
L’ordine ti arriva nella notte. Nell’azione verranno impiegate tutte le forze che restano, e che possono garantire un potenziale di distruzione senza eguali. Quella piccola città che resiste dovrà essere spazzata via, e senza particolari cautele, per poter raggiungere la capitale entro la sera successiva.
Mandi in avanscoperta una pattuglia, agli ordini di un giovane ufficiale.
Non vuoi correre rischi: prima dell’alba, un robusto bombardamento convincerà gli ultimi resistenti, per quanto accaniti, ad abbandonare la difesa ed a permettere, alle prime luci del giorno, il passaggio della tua divisione.
E qui, generale, nel film ti vedi lucido e deciso, con le idee assolutamente chiare. Emozionato, come prima di ogni battaglia decisiva.
Affacciato all’ingresso della tenda, dopo aver congedato gli ultimi ufficiali, guardi verso la città che conquisterai, punteggiata da piccole luci fioche e rischiarata, a tratti, dagli ultimi incendi della giornata.
Sorseggi del buon bourbon, e pensi.
E mentre pensi, torna la pattuglia di esploratori. O quel che ne resta, visto che sono stati scoperti e, secondo i racconti spezzati del sottufficiale che guida il drappello di superstiti, catturati e portati nel cuore della città.
Un ulteriore problema si aggiunge a quelli che già hai, e per non pensarci lasci che il Four Roses ti incendi la gola con l’ultimo sorso.
Poche ore dopo, nella notte insonne, ascolterai il lavoro ben fatto dall’aviazione, e vedrai ancora i bagliori nuovi e accecanti che devono – DEVONO – consentirti di vincere.
Quando il sole finalmente sorge, generale, il tuo film supera il punto di non ritorno.
Hai nelle orecchie il rumore dei cingoli, e negli occhi socchiusi il bruciore della sabbia, quando, cinquanta minuti dopo, alle porte della città state per entrare.
Sembra una città deserta, abbandonata. Siete decisi ma cauti, e quando quel soldato con il viso sconvolto ti invita ad entrare in quella casa, una delle poche rimaste in piedi dopo il duro lavoro di distruzione, fermi la colonna con un cenno della mano.
Nel silenzio, varchi la soglia. All’inizio non comprendi quel che vedi. Sono macchie verdi e rosse, e ci metti un po’ a comprendere che quel sangue, quei corpi disarticolati, quello strazio è ciò che resta della tua pattuglia.
Non vuoi vedere – ed ancora oggi, oltre il vetro che gocciola, non vuoi ricordare – quella gola tagliata, quei volti tumefatti, quel corpo di giovane donna vistosamente violato prima dell’orrore finale.
Fai solo un cenno all’ufficiale che è entrato con te, ed esci con in bocca un gusto osceno, e nella mente qualcosa che non sai descrivere. Ti ascolti urlare ordini secchi e spietati, che fanno riprendere il rumore con un tono ancora più inquietante: la colonna si muove, i passi risuonano nella città deserta, i fucili cercano le anime nascoste tra le macerie per una vendetta.

Ti ricordi ancora esattamente, generale, che cosa hai detto al Comandante nel pomeriggio, dopo che tutto era finito.
O cosa non hai detto: dopo il passaggio della divisione, la piccola città si è trasformata in un cimitero fumante. Hai restituito lo strazio di quella casa moltiplicato per mille, e per tutta la mattina il rumore delle armi automatiche ha ritmato la vendetta. Nelle case, dentro i vecchi bazar, i tuoi uomini hanno sparato urlato violato, con gli occhi spalancati dall’orrore di una guerra ormai troppo lunga per consentire la sopravvivenza di qualcosa che somigliasse all’umanità.
Donne, bambini, guerriglieri, soldati, vecchi sono caduti senza che il loro grido superasse neppure il fragore delle armi.

Poi, ad un certo punto, tutto è finito.
I tuoi soldati, svuotati e stanchi, si sono fermati, nel silenzio rotto solo dai gemiti di qualche ferito lontano, da qualche sparo isolato e dai crepitii delle fiamme.
Il Comandante, al telefono, ti intima di fermarti: qualche reporter ha già raccontato e documentato la carneficina, il mondo sa già tutto, prima ancora che tu abbia riordinato le idee e dato un ordine logico a tutto il casino che hai in testa.

Ti ricordi, generale: la fine della guerra giunse quel giorno, quando la voce stizzita del Comandante riferì che il Presidente aveva dato l’ordine di tornare a casa.

Non fu bello, qualche giorno dopo, scendere dall’aereo e correre via tra i poliziotti, mentre la folla rumoreggiava ostile oltre le recinzioni della base, tenuta a bada dai mitragliatori spianati della polizia militare.
Non fu bello vedere che lo sguardo del Comandante, nelle insostenibili riunioni che seguirono, ti imputava il tradimento e la sconfitta, come se tu fossi il solo responsabile dell’esito di quella guerra disgraziata.
Ed i lunghi, dolorosi interrogatori della Commissione di Inchiesta si fecero ancora più duri quando, l’anno dopo, il Presidente vecchio e stanco perse senza sorpresa le elezioni, ed i nuovi padroni vollero chiudere i conti con durezza.
No, nonostante le insistenze non ti consegnarono in mano al Tribunale Internazionale: nessun generale ci sarebbe mai finito, lì, nessuno.

Ed ora, generale, davanti al vetro della finestra che dà sul vialetto, pensi che questi trent’anni ti sono pesati come un secolo, e che i capelli bianchi e il corpo incurvato e lo sguardo opaco non ti hanno sottratto a quel ricordo. E pensi che questo film non smetterà mai di tormentarti, anche se l’oblio della storia ha ormai consentito di dimenticarti, anche se nessuno urla più davanti alla tua finestra, anche se in quel paese ed in quella città si sono succeduti nuovi tiranni, con cui si sono fatti nuovi affari prima di fare nuove guerre.

Nel film che da quel giorno ti oscura lo sguardo, i morti sembrano osservarti con pietà: ma non riesci ancora a vederli, come non li vedesti allora.

martedì, maggio 23, 2006

Giù le mani da Giorgio Gaber/2

Ma trattasi di un vizio del direttore comunicazione della Piaggio, dunque...! Il classico caso in cui, potendo mangiare un'idea, non si produce nulla di meglio della cacca.

Fulvio Zendrini cita Gaber e bacchetta Telecom

Ah “se potessi mangiare un’idea”... Fulvio Zendrini, direttore comunicazione del gruppo Piaggio, prende a prestito le parole di Giorgio Gaber per sottolineare la forza dell’idea che riempie una campagna pubblicitaria. Zendrini - ex numero uno della comunicazione di Tim e Telecom Italia - non risparmia nessuna critica ai suo vecchi datori di lavoro: “Lasciarsi strappare da Fastweb un testimonial come Valentino Rossi è stata una follia – dice -. Certo, saranno anche bravi a pianificare ma...”. Il manager riafferma poi la supremazia “del cuore sui numeri” e spara a zero sul reparto marketing (“Uccidetelo”), dicendo ai creativi di rivolgersi direttamente agli amministratori delegati e ai direttori comunicazione delle aziende. “Quando mi si accusa di chiamare in gara 17 agenzie per il nuovo tre ruote di Piaggio – conclude – io rispondo che se c’è un’idea sono le agenzie stesse a farsi avanti. Perché dovrei privarmi di un’idea forte, anche se viene da un ragazzino?”.

venerdì, maggio 19, 2006

Giù le mani da Giorgio Gaber

In questo blog si ama Giorgio Gaber. Tutto, dal Trani a gogo a Io se fossi Dio, il cui testo è anche pubblicato in versione integrale in un post.
E quindi figuratevi la mia emozione quando, ascoltando la radio, parte ad un certo punto la sua amata voce che canta "la libertà non è star sopra un albero...".
Una canzone attualissima sulla necessità della partecipazione, perbacco.
Sei lì che ti metti a cantare insieme a lui, e la canzone sfuma di botto con una annunciatrice che dice "La libertà è Piaggio". La libertà è Piaggio? Ma vaffanculo, Piaggio!
Ma c'è di peggio. La pubblicità radiofonica di un nuovo canale televisivo "per soli uomini" (lo deduci dal testo sprezzante e misogino che apre lo spot) è chiuso sempre da Gaber che canta "Ciao ciao bambina" (la canzone è di Tenco, mi pare, ma ne ha fatta una versione anche Gaber, la sua voce nasale è inconfondibile).
Ora, io capisco che un grande come Gaber abbia avuto in vita la orribile sfiga di una famiglia folgorata sulla via di Arcore; ma mi sembra che nè Ombretta Colli nè Dalia Gaberscik siano ridotte cosi "pezzealculo" da dover dare via i diritti del grande Giorgio per vendere motorini o canali per maiali.
Che peste le colga, subito.

giovedì, maggio 18, 2006

Il nuovo governo

Non so cosa pensare. Da un lato sono contento che il governo sia nato, e non vedo l'ora che dia prova di sè, che dica e faccia (con moderazione, senza fanfalucate) qualcosa di semplice che dia speranza. Speranza di cambiamento rispetto a tutto il brutto che si è visto e sentito in questi cinque anni: il disprezzo per le regole, gli avversari, le culture diverse. Il disprezzo per i sogni che non fossero merci, soldi, grassi superflui.
L'inizio, diciamocelo, è deludente. Mastella alla Giustizia è più competente del geometra Castelli? E il nuovo ministro dei trasporti che inizia a sparare trombonate sul ponte dello Stretto, è un esempio della moderazione e della cautela con cui questo governo dovrebbe operare? Michele Serra qui spara a zero su questo pessimo inizio, e devo dire che condivido la frustata.
Dobbiamo essere migliori, non attuare berluschismi speculari.
Vabbè, diamoci tempo e speriamo in Prodi (che quando dice, rispetto alle poche donne nel governo "Mi sarei aspettato di più", ci fa restar basiti: ma chi l'ha fatto, sto governo, Babbo Natale? Ti abbiamo dato qualche milione di voti alle primarie ANCHE per non sentire scemenze simili!).
Ma non diamocene troppo, di tempo. Presto, prima che sia troppo tardi. Non sopporto i ghigni destri di quelli che dicono "Visto? sono uguali!" e voglion dire che "siamo uguali". No, non lo sopporto. Dai, su, per favore, diamo un segno.

mercoledì, maggio 10, 2006

Benvenuto, Presidente!

Stamattina sentivo, alla radio, Giampaolo Pansa parlar male di Giorgio Napolitano. Ne raccontava come di una persona spocchiosa, sempre in disaccordo con il partito ma mai in grado di guidarlo, latore di innumerevoli lettere di precisazione su questioni irrilevanti presenti negli articoli di stampa.
A me, il nostro nuovo Presidente piace, e piace in parte anche per i motivi per cui non piace a Pansa.
Certo, anch'io, con il senno di poi e prendendo atto della insulsa dissociazione della Camera della Libertà, avrei forse preferito D'Alema: è il politico più intelligente che abbiamo in Italia, è giovane.
Ma questo signore di cui si sottolinea l'eleganza e l'assoluta assenza dal dibattito politico recente porta, forse, le cose di cui abbiamo più bisogno in un ruolo così rappresentativo ed in un momento così avvelenato: la pacatezza, l'attenzione alla forma ed al contenuto delle parole.
La sua storia è la storia di un comunista un po' particolare e minoritario, ma è una storia che appartiene a me e a molta parte del paese. Che Berlusconi continui a non riconoscerla è, al contempo, ragione di depressione, ma anche di solido orgoglio e certezza di essere MIGLIORI.